Un paese spaccato in due, e di nuovo sull’orlo della guerra civile. La Costa d’Avorio sembra non riuscire a trovare pace, nonostante la potenziale ricchezza (il paese africano è il più importante produttore al mondo di cacao), nonostante i tentativi, anche della comunità internazionale, di risolvere una crisi politica che, di fatto, dura da oltre dieci anni. E’ fallito anche l’ultimo tentativo: le elezioni presidenziali della scorsa settimana, interpretate dalla popolazione come l’avvio di una nuova stagione di democrazia e di stabilità, rischiano, ogni giorno di più, di far scivolare ancora il paese in una spirale di violenza.
L’esercito, dopo aver imposto il coprifuoco già dalla sera precedente alle elezioni, ha chiuso le frontiere in vista dell’annuncio dei risultati delle elezioni, bloccando tutte le trasmissioni televisive e radiofoniche straniere.
“Gli spazi aerei, territoriali e marittimi del paese sono chiusi per chiunque a partire da oggi, fino a ulteriori comunicazioni”, aveva dichiarato il maggiore Babri Gohourou, il 27 novembre scorso, alla vigilia del ballottaggio.
“La situazione dopo le elezioni – racconta una fonte locale – è molto tesa. Il paese rischia un colpo di stato, ci sono stati episodi di violenza, già otto morti e una ventina di feriti, dopo gli scontri tra la polizia e i manifestanti, di entrambe le fazioni politiche coinvolte, ma i numeri sono destinati ad aumentare, e la situazione potrebbe degenerare da un momento all’altro. L’affluenza alle urne, al primo turno era stata massiccia – riferisce la fonte locale – poi al secondo turno, pur restando molto alta, è stata influenzata dal coprifuoco, forse la popolazione ha percepito uno stato di tensione presente nel paese e si è alimentato un clima di sospetto”.
Il primo verdetto delle urne, infatti, aveva sancito, al ballottaggio, la vittoria del candidato dell’opposizione, l’ex ribelle, ed ex Primo ministro, Alassane Ouattara, con oltre il 54% dei voti, contro il 45,9 % delle preferenze per il Presidente della Repubblica in carica (da dieci anni), Laurent Gbagbo.
Questo risultato, però, ratificato dalla Commissione elettorale indipendente, è stato impugnato dal Consiglio Costituzionale, l’organismo supremo in caso di esiti delle consultazioni elettorali: secondo il Consiglio, i risultati erano stati comunicati dalla Commissione oltre la scadenza prevista, cioè la mezzanotte di mercoledì 1 dicembre. In realtà si è trattato di un espediente creato ad arte dagli uomini di Gbagbo (il presidente del Consiglio Costituzionale è il fedelissimo Paul Yao N’dré) per invalidare il risultato delle urne, e per rovesciarlo, dopo la denuncia di brogli elettorali in tutto il Nord del paese, quello controllato dalla fazione di Ouattara.
Il Consiglio Costituzionale, quindi, ha proceduto al ricalcolo dei voti, proclamando Gbagbo vincitore delle elezioni, con il 51% dei sondaggi, contro il 49% dello sfidante. Una decisione, questa, che ha generato una situazione paradossale: la Costa d’Avorio, di fatto, ha due Presidenti della Repubblica.
E nessuno dei due sembra intenzionato a recedere: entrambi hanno già giurato fedeltà alla Repubblica. Uno, Laurent Gbagbo, lo ha fatto sabato scorso, con una cerimonia di autoproclamazione nel palazzo presidenziale di Abidjan, l’altro, Ouattara, lo ha scritto in un documento ufficiale, nel quale ha spiegato che “circostanze eccezionali” gli hanno impedito di giurare di persona, costringendolo a ripiegare sulla irrituale forma scritta.
Nel frattempo il primo ministro uscente, Guillame Soro, l’ex comandante delle Forces Nuovelles, i ribelli che firmarono con Gbagbo, nel 2007, l’accordo di pace di Ouagadougou, ha rassegnato le proprie dimissioni dall’incarico, rimettendo il mandato nelle mani di Ouattara, riconoscendolo quindi presidente e venendo, immediatamente, incaricato di formare il nuovo esecutivo.
Una situazione estremamente precaria, come lo stesso equilibrio interno della Costa d’Avorio, dilaniata da decenni di conflitti, oppressa da una guerra civile latente, ostaggio di una lotta politica cominciata nel 1993, all’indomani della scomparsa di Felix Houphouet-Boigny, per trentatré anni leader politico e padre spirituale della nazione ivoriana (diventata indipendente dalla Francia solo nel 1960). Boigny, di etnia Baoulé, famoso anche per aver ideato e realizzato la copia esatta della Basilica di San Pietro a Yamoussoukro, per il costo di 300 milioni di dollari, aveva designato come suo successore il presidente dell’assemblea nazionale Henry Koran Badié, ex ambasciatore negli Stati Uniti, che aveva avuto la meglio, in quella che venne definita la “battaglia della successione” proprio su Alassane Ouattara, lo stesso presidente eletto di adesso, all’epoca primo ministro, ed economista del Fondo Monetario Internazionale.
Badié, che nel corso del suo governo aveva portato avanti una dura repressione nei confronti di Ouattara e di tutti coloro che, come lui, non erano in grado di dimostrare di essere ivoriani “puri” (elemento costante, questo, nelle lotte politiche per il controllo del paese africano, in cui coesistono diverse etnie, tra le quali una componente di ivoriani originari del Burkina Faso – tra i quali, pare, anche lo stesso Ouattara – che occupano stabilmente la parte nord) venne rovesciato, nella notte di Natale del 1999, da un colpo di stato militare, per mano dell’esercito regolare ivoriano, il cui comandante in capo era il giovane generale Robert Guei. Già fedelissimo di Boigny, e pur non avendo partecipato di persona al golpe, Guei venne incaricato di gestire il potere fino alle future elezioni: che avvennero nell’ottobre del 2000, e che videro la vittoria di Laurent Gbagbo, con il 59% dei voti. La vittoria di Gbagbo, ex professore universitario, e leader di un movimento di ispirazione socialista, non venne riconosciuta da Guei fino al 26 ottobre, giorno in cui una rivolta popolare consegnò il potere allo stesso Gbagbo, che divenne il primo presidente eletto nella storia della Costa d’Avorio. Da quelle elezioni, tra l’altro, era stato escluso lo stesso Ouattara, perché non in grado di dimostrare che i propri genitori erano entrambi ivoriani. La pace durò appena due anni, fino al 19 settembre del 2002, quando fallì un nuovo tentativo di golpe, nel quale rimase ucciso lo stesso generale Guei, misteriosamente assassinato due giorni dopo: un mancato colpo di stato, sventato grazie ad un accordo che prevedeva che Gbagbo restasse presidente, ma affiancato da un ministro neutrale. Un accordo che durò appena due anni, fino al novembre del 2004, quando i ribelli del nord si rifiutarono di deporre le armi. Nel 2005, intanto, sarebbe scaduto il primo mandato di Gbagbo, che fu prorogato di anno in anno nella speranza di una soluzione del conflitto. Una guerra civile che si trascinò fino all’accordo di Ouagadougou del 4 marzo 2007, dopo il quale Guillaume Soro, il leader delle forze ribelli, venne nominato dal presidente Gbagbo primo ministro. Le previste elezioni, invece, hanno continuato a subire rinvii, anno dopo anno, fino alla scorsa settimana, quando sembrava che la storia potesse finalmente restituire il sogno di democrazia alla gente ivoriana. E invece, come in una perversa nemesi, il presidente eletto non può festeggiare la propria vittoria, per l’opposizione del suo avversario.
Ouattara è stato formalmente riconosciuto vincitore dall’intera comunità politica internazionale, dagli Usa alla Gran Bretagna, fino all’Unione Africana e alla Francia, il cui Presidente, Sarkozy, ha invitato Gbagbo a “riconoscere la vittoria di Ouattara e a farsi da parte per il bene del paese”.
Anche Barack Obama riconosce Outtara, e si è indirizzato direttamente a Gbagbo per chiedere un suo passo indietro e rispettare la volontà degli elettori. L’Onu e l’Unione Europea stanno cercando di trovare una soluzione pacifica, con un’intensa attività diplomatica per il ritorno ad uno stato di legittimità istituzionale nel paese, anche per evitare rischi ai circa 15mila stranieri presenti in Costa d’Avorio, che rischiano l’incolumità.
Il Segretario Generale dell’ONU, Ban Ki Moon, ha espresso tutta la propria preoccupazione, invitando la popolazione a mantenere la calma ma, nel contempo, riconoscendo la vittoria di Ouattara: “Ritengo corretto – ha dichiarato sabato scorso – il risultato elettorale inizialmente proclamato, il cui esito non lascia dubbi”. Tutte le operazioni di voto, peraltro, si sono svolte sotto la supervisione, oltre che dell’ONU, dell’Unione Europea, che, già dal 7 ottobre, in vista del primo turno elettorale, aveva risposto all’invito della stessa repubblica ivoriana, inviando una missione di osservazione elettorale, nell’ambito di un più complesso programma internazionale di aiuti e di sostegno alle nazioni, in tema di diritti umani e di supporto ai processi di democratizzazione. Il rapporto ufficiale della missione verrà pubblicato tra due mesi, ma già nelle conclusioni preliminari gli esperti dell’Unione Europea hanno sottolineato come “la Costa d’Avorio sia dotata degli strumenti giuridici che le permettono di conformarsi alle norme internazionali in materia di elezioni democratiche”, e che consentano “ai protagonisti delle elezioni di agire in piena responsabilità per portare a termine nel migliore dei modi il processo elettorale”. Un giudizio netto, un invito al rispetto del risultato delle urne, anche se mimetizzato nel linguaggio burocratico. Della missione elettorale facevano parte anche diversi italiani, i quali confermano la regolarità dei risultati. “ La missione dell’UE ha condotto il proprio lavoro secondo gli standard internazionali di osservazione elettorale – dice Giovanna Scotton, una delle osservatrici appena rientrata da Abidjan. Sono state giornate molto intense, sia per il lavoro di osservazione, sia per l’esperienza umana che ci hanno offerto. La Costa d’Avorio è un paese bello, e capace di grandi cose”. L’unica cosa che le manca è un presidente della repubblica regolarmente eletto. Almeno per ora.
Martha Nunziata