Intervista Esfandiari

Haleh Esfandiari è una donna minuta, all’apparenza quasi fragile. Basta parlarle per qualche istante però, per rendersi conto di quanta forza emani. Per sfidare un regime, del resto, ne occorre tanta, e Haleh Esfandiari quel regime lo ha sfidato. Ed ha vinto, anche se ha pagato un prezzo altissimo. E‘ rimasta in prigione per più di tre mesi, l’ultima volta che è tornata nel suo paese, l’Iran, per far visita alla madre anziana: hanno provato a spezzarla, ma lei non si è nemmeno piegata. E alla fine è tornata una donna libera, nel suo paese d’adozione, gli Stati Uniti, da dove conduce, ogni giorno, la battaglia per il riconoscimento dei diritti civili delle donne iraniane, umiliate da leggi arcaiche e da pregiudizi antichi. Direttrice del Woodrow Wilson International Center di Washington, l’abbiamo incontrata al Centro Studi Americani di Roma, in ocasione di un convegno sui rapporti tra USA ed Iran. Ha raccontato a liberal la sua storia.

 

Lei è nata e cresciuta in Iran, ma vive ormai da tempo negli Stati Uniti: si sente più iraniana o americana?

 

Gli Stati Uniti, adesso, sono la mia casa, ma io mi sento profondamente iraniana. Quando nasci in un luogo, anche se quel luogo è sottoposto a regime, buono o cattivo che sia, tu appartieni a quel luogo, anche se ti ferisce se quel luogo ti respinge, come è successo a me. Gli Stati Uniti hanno accolto me e mio marito, e lui prima di me, lui è arrivato negli USA quando aveva tredici anni, è cresciuto, ha studiato ad Harvard ed è americano, io sono arrivata negli Stati Uniti quando ero già adulta (nel 1980, dopo la rivoluzione iraniana, quando aveva 40 anni, ndr), dopo essere stata educata in Iran, da una mamma austriaca e da una tata francese: ecco perché mi sento più iraniana che americana.

 

Madre cattolica, padre mussulmano, educata in un paese mussulmano, sposata con un ebreo iraniano: lei è il simbolo dell’integrazione religiosa e culturale…

 

Io sono stata educata con principi secolari, nonostante abbia vissuto per tanti anni in un paese che ancora oggi non è secolarizzato. Per questo tendo a considerare la religione appartenente più alla sfera privata che a quella pubblica; e questo è un sentimento che condivido con mio marito, che pure, come tutti gli ebrei che hanno vissuto e che vivono in paesi mussulmani, ha dovuto fare i conti con le barriere invisibili della discriminazione religiosa. Un ebreo, per esempio, non può ambire a ricoprire cariche ministeriali, in un paese come l’Iran, anche se poi può fare fortuna come uomo d’affari, come è successo a mio suocero, per esempio.

 

Quando è stata l’ultima volta che ha visitato l’Iran?

 

Ad agosto del 2007, quando sono tornata negli Stati Uniti dopo la detenzione. Arrivai in Iran il 30 dicembre del 2006, fui fermata in aeroporto e mi fu ritirato il passaporto iraniano: sono riuscita a ripartire per gli Stati Uniti solo a fine agosto dell’anno successivo, dopo aver trascorso otto mesi agli arresti domiciliari, e 105 giorni in carcere.

 

Cosa è cambiato, da allora?

 

E’ cambiato tantissimo: intanto le elezioni del 2009, e la nascita del “Green Movement”, con due milioni di persone in piazza a protestare contro il regime per i brogli elettorali, e molti di loro sono stati arrestati o addirittura uccisi. In queste proteste le donne hanno avuto una grande importanza, ispirate dalla figura di Zahra Rahnavard, la moglie di Hossein Mousavi (uno dei due leader del Green Movement, insieme a Mehdi Karroubi, ndr). Zahra è una donna straordinaria, con il suo esempio ha contribuito moltissimo al movimento di opposizione al regime. Zahra, per esempio, era solita tenere per mano il marito, in pubblico, un atteggiamento raro da vedere in una società come quella iraniana. Oppure, essendo lei un’ottima oratrice, a differenza del marito, che invece non si trova affatto a suo agio a parlare in pubblico, apriva i comizi di Mousavi, per arringare e “scaldare” la folla, prima di lasciare il palco al marito per le conclusioni. E l’atteggiamento del regime di Ahmadinejab nei confronti delle donne è cambiato radicalmente dopo il 2009: in precedenza il regime era restio a compiere soprusi, o atti di violenza nei confronti delle donne, ma dopo le prime manifestazioni di piazza è diventato duro anche con le donne, che vengono arrestate e lasciate in prigione per giorni senza processo, come succede per gli uomini. Io conosco molto bene Shirin Ebadi (Nobel per la pace nel 2003, ndr): lei è dovuta fuggire dall’Iran per evitare ritorsioni.

 

Nel 2005 lei scrisse un articolo dal titolo “Donne iraniane, alzatevi!” Quel momento è arrivato? Le donne si stanno alzando?

 

Sì, decisamente. Le donne iraniane si stanno alzando dopo 33 anni nei quali non sono state considerate nella vita pubblica del paese, e lo stanno facendo in maniera decisa. Adesso sono le donne che raccolgono le firme per le petizioni al Governo, sono le donne che pretendono il riconoscimento dello status giuridico equiparato a quello degli uomini, sono le donne che chiedono la libertà di educazione e l’accesso all’istruzione (non a caso il 60% degli studenti dell’Università di Teheran sono donne). Le donne iraniane, adesso, si stanno anche ribellando al dress code islamico, che le obbliga ad indossare veli, sciarpe e abiti lunghi. Sempre più spesso, anche nelle strade in centro a Teheran, si possono vedere ragazze bellissime che non hanno paura di mostrare il loro viso scoperto, anche truccato, con i capelli sciolti, oppure che indossano pantaloni corti o t-shirt. Sì, le donne iraniane si stanno alzando, senza dubbio.

 

Quale sarà il destino di Sakineh? Il mondo occidentale e l’Italia in particolare, si sono adoperati molto in suo favore…

 

Conosco bene la vicenda di Sakineh, e a quello che mi risulta lei è ancora in prigione, ma  grazie alla mobilitazione internazionale lei non è in pericolo di vita, impedendo che fosse commesso un crimine orrendo: il vero problema dell’Iran, e delle donne dell’Iran, è che sono prigioniere di una visione arcaica del diritto civile, che le pone, o le vorrebbe porre, ancora oggi, un gradino sotto gli uomini nella scala sociale. Ma le cose stanno cambiando, anche grazie alla vicenda di Sakineh. E io credo che non ci vorrà molto perché lei possa tornare libera. Il regime non può tenerla prigioniera all’infinito.

 

Dall’anno scorso su tutto il Medio Oriente soffia un vento di libertà: la primavera araba arriverà anche in Siria, secondo lei?

 

Non so se la primavera araba potrà, alla fine, arrivare anche in Siria e rovesciare il regime di Assad, ma di una cosa sono certa: Assad non potrà continuare ad uccidere persone innocenti all’infinito. Quanti sono stati i morti, finora? Migliaia, forse centinaia di migliaia: quanto tempo ancora potrà continuare? Credo che, alla fine, Assad stesso, anche con la pressione della comunità internazionale, si renderà conto che non potrà continuare ad assassinare i propri concittadini all’infinito.

 

C’è stato chi ha paragonato Ahmadinejad ad Assad…

 

No, non sono d’accordo. Non ci sono termini di paragone, tra i due. Prima di tutto, anche se con i modi che conosciamo, Ahmadinejad è comunque un presidente eletto, a differenza di Assad, ma la vera distanza tra i due è costituita dal fatto che, mentre Assad ha potere assoluto, in Siria, Ahmadinejad deve rispondere di tute le sue azioni al Supremo Leader (durante tutta l’intervista la Esfandiari ha accennato all’ayatollah Khamenei senza mai chiamarlo per nome, ma riferendosi a lui sempre come “Supreme Leader”, ndr), che è e resta la guida religiosa e politica del paese. Ahmadinejad, al massimo, potrebbe essere accostato allo Scià, per il suo populismo, ma il vero mistero, ai miei occhi, è perché l’Iran continui ad appoggiare il regime siriano. Una volta che in Siria le elezioni avranno decretato la fine di Assad, non credo proprio che il nuovo governo siriano possa accettare di avere rapporti con un governo che era alleato di un dittatore. In questo senso, secondo me, la politica estera dell’Iran nei confronti della Siria dovrebbe cambiare.

 

Molti analisti sostengono che Israele stia preparando la guerra all’Iran…

 

Ho letto anch’io molte di queste analisi, ho sentito anch’io queste voci, ma stento a credere che un paese come Israele possa compiere un atto del genere: le conseguenze di un eventuale attacco israeliano alla Siria sarebbero orribili per tutta l’area. Una guerra che scatenerebbe la reazione non solo della stessa Siria, ma di tutti i paesi islamici, dall’Egitto alla Tunisia, dal Libano al Golfo Persico. Non credo che Israele voglia mettersi contro tutta l’area islamica, senza tener conto, poi, della minaccia nucleare iraniana.

 

A proposito di atomica, la politica della mano tesa del Presidente Obama nei confronti di Ahmadinejad ha riaperto i rapporti tra gli Stati Uniti e l’Iran…

 

E’ vero. Per 33 anni i paesi non hanno avuto alcun rapporto. Il Supremo Leader non aveva alcuna intenzione di avere rapporti con gli USA. Già con l’amministrazione Bush, però, le cose erano cambiate, e gli Stati Uniti avevano fatto anche ingenti investimenti in Iran: la outstretched hand strategy di Obama, però, ha avuto il potere di far riavvicinare i due paesi, e la mediazione degli Stati Uniti può essere fondamentale nel processo di democratizzazione dell’Iran, ma anche nell’evoluzione dei rapporti con Israele, per evitare quel conflitto al quale facevamo riferimento in precedenza.

 

 

Tornando ai 105 giorni della sua prigionia, qual’è stato il momento più duro, quello che vorrebbe dimenticare?

 

Quando sei rinchiuso in una cella minuscola, e ovunque ti giri vedi solo il bianco delle pareti, l’unica cosa che puoi fare è pensare: ho in mente ogni ora, ogni minuto, ogni secondo di quei giorni. Ma il ricordo più brutto è sicuramente quello degli interrogatori. Quando mi trasferivano dalla mia cella alla stanza dove venivo interrogata venivo bendata: è una sensazione orrenda, ti senti completamente in balia dei tuoi carcerieri. Mi dicevano “vai a destra, gira a sinistra, sali, scendi”: io non vedevo nulla, solo le scarpe dei secondini, e per cogliere qualche particolare ero costretta a sollevare un po’ la benda dagli occhi, facendo attenzione che nessuno se ne accorgesse. Ecco, quella sensazione così umiliante è il ricordo che vorrei cancellare.

 

Un’ultima cosa: lei ama ancora il suo paese? Vorrebbe tornarci?

 

L’ultima sera che ho trascorso a Teheran l’ho passata in aeroporto, in attesa del volo per gli Stati Uniti. E prima del decollo ho guardato fuori dal finestrino dell’aereo: il cielo era limpidissimo e pieno di stelle. In quel momento ho pensato che quello non era un addio, ma solo un arrivederci. Sì, decisamente amo ancora il mio paese. esfandiari