Ustica, 40 anni senza un colpevole

Quarant’anni. Tanto è passato dalla tragedia del Dc-9 Itavia, precipitato in mare al largo di Ustica. Era il 27 giugno 1980, erano le 20.59.

Il volo IH870, in servizio da Bologna a Palermo, scompare dai radar, con a bordo ottantuno persone: 77 passeggeri, di cui 13 bambini, e 4 membri dell’equipaggio. E per tutti loro ancora nessuna giustizia e nessuna verità.

In quarant’anni si sono rincorse ipotesi, tesi, inchieste giudiziarie e giornalistiche, perizie scientifiche e sentenze. Ma nessuno è stato giudicato colpevole di quella strage. E, forse, nessuno lo sarà mai. L’inchiesta penale è  finita, vent’anni fa,  con una richiesta di archiviazione, con la sentenza-ordinanza del 31 agosto 1999 del giudice Rosario Priore. L’unico processo penale, fondato su quell’ordinanza, è stato quello per depistaggio, concluso, nel 2007, con l’assoluzione definitiva degli alti gradi dell’Areonautica, con la formula più ampia “perché il fatto non sussiste“. Secondo la Cassazione, quella notte, nei cieli di Ustica, non ci fu nessuna battaglia, nessun  atto di guerra, e tanto meno un missile.
Solo nel 2013 ai parenti delle vittime venne riconosciuto un risarcimento in sede civile, basato sostanzialmente sull’ordinanza di Priore e non sul verdetto della Cassazione penale.

Gli indennizzi vennero giustificati dal fatto che lo Stato non avrebbe tutelato la sicurezza dei cieli, senza individuare, perciò, alcun responsabile, né rendere giustizia alle famiglie delle persone coinvolte nell’incidente.
Eppure le ipotesi, quelle note, furono subito ridotte a quattro, prima tra tutte il cedimento strutturale; tesi, questa, avallata dai servizi segreti della marina, il SIOS, nel tentativo di ricondurre il disastro alla vetustà dell’apparecchio, alla sua inadeguata manutenzione, argomentazione supportata anche e soprattutto dall’Alitalia, che in quegli anni aveva grandi interessi in gioco nella vicenda di Ustica.

Questo aspetto, la lotta segreta tra le due compagnie, forse il meno conosciuto dell’intera vicenda, è descritto nel libro “Itavia”, di Nicola Pedde, analista di politica internazionale, secondo il quale la storia dell’Itavia è “degna della migliore tradizione dei film di spionaggio, e comunque è una delle più importanti pagine della storia del trasporto aereo commerciale in Italia”. La teoria del cedimento fu però definitivamente accantonata dalla commissione di inchiesta Luttazzi, che determinò le perfette condizioni del velivolo, che era anche pilotato da un comandante di comprovata esperienza.

Si parlò, anche, di collisione con un altro aereo in volo, un errore durante un’esercitazione militare, elemento tenuto nascosto perché in relazione ad un traffico non autorizzato di aerei militari, e, infine, addirittura di una bomba.

Ma l’ipotesi apparsa immediatamente più plausibile, allora come oggi, fu quella del missile: era, ed è ancora, una “verità indicibile”, perché avrebbe scatenato un incidente internazionale. “Quella sera il colonnello Gheddafi – sostiene Giovanni Fasanella nel suo libro-intervista “Intrigo internazionale”, scritto con il giudice Priore – era in volo da Tripoli a Varsavia, scortato da due Mig libici, che utilizzavano, per i trasferimenti aerei, corridoi italiani privi di copertura radar Nato (i famosi buchi del sistema Nadge, ndr), e gli italiani intercettarono un’azione ostile nei suoi confronti, di matrice franco-britannica. Gli aerei libici, durante il volo, all’altezza di Grosseto, erano andati a nascondersi sotto il Dc-9: i servizi segreti italiani deviati avvertirono Gheddafi del pericolo e lui invertì la rotta. Tutto questo risulta dagli atti dell’inchiesta del giudice Priore, che ottenne dalla Nato i documenti che testimoniavano la presenza di 21 aerei da guerra quella notte nei cieli italiani. Il piano di volo dei caccia francesi, decollati dalla portaerei “Clemenceau” di stanza in Corsica, prevedeva di intercettare prima la scorta di Gheddafi e poi il rais stesso. Ma il missile partito da uno dei caccia francesi colpì per errore il Dc-9, sotto la pancia del quale volavano, proprio per non essere intercettati, i due Mig libici della scorta di Gheddafi. Nei tracciati radar si vede chiaramente la nuvola dei detriti del Dc-9 esploso, e le scie dei due Mig che si allontanano, uno dei quali, come sappiamo, precipita sulla Sila”.

Una delle voci più alte che si sono levate in favore della teoria del missile francese fu quella del Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, che nel 2007 parlò apertamente di “missile a risonanza”, lanciato da un aereo militare francese, nel tentativo di abbattere il Mig a bordo del quale si credeva ci fosse Gheddafi.

La strage di Ustica, uno dei grandi misteri del nostro dopoguerra, ha radici in un ambito internazionale e in un contesto geopolitico più ampio, dove l’Italia nella politica estera ricopriva una posizione strategica rilevante negli equilibri del Mediterraneo, ma una posizione di estrema debolezza nei confronti dei paesi del Patto Atlantico.

Nella politica interna, invece, per il nostro Paese quelli erano anni di grande fermento, a cavallo tra il ‘70 e l’80, nei quali l’Italia era alle prese con il terrorismo rosso e nero, strumentalizzato da interessi internazionali, con un progetto delle Brigate Rosse di destabilizzare il Paese. Anni nei quali il partito comunista era in grande crescita, e soggetti diversi, politici e non, volevano la guerra armata. Anni segnati da omicidi di grandi personalità, come Aldo Moro, Walter Tobagi e Vittorio Bachelet, anni di bombe alle stazioni e sui treni, come a Bologna, e poi l’attentato a Papa Giovanni Paolo II, i servizi segreti deviati, il controspionaggio, l’intelligence italiana legata alla fedeltà alla Costituzione e all’Alleanza Atlantica, ma, contemporaneamente, capace di stringere accordi segreti con dittatori e terroristi. Anni nei quali organizzazioni segrete, come la P2 e Gladio, decidevano le sorti del nostro Paese.

Erano gli “anni di piombo”.

La geopolitica dell’Italia era legata, in quegli anni, alla politica mediterranea, e soprattutto a quella del Nord Africa: una strategia che, a volte, non disdegnava gli accordi con l’allora nemico numero uno dell’occidente, il colonnello libico Muhammar Gheddafi. Un legame doppio, e pericoloso, figlio della necessità di garantirsi le risorse energetiche libiche: giacimenti di petrolio, gas naturali, ma anche uranio. Una posizione ambigua e ambivalente che non piaceva a molti, in primis al governo francese, che vantava interessi energetici nei confronti della Libia.

E allora, perché non si è mai riusciti ad arrivare ad un colpevole, alla verità? Perché spesso, quasi sempre in Italia, le ragioni giuridiche di una sentenza si sono scontrate con la ragione di Stato, uno Stato determinato a coprire con i propri apparati alcune realtà, apponendo il segreto sui documenti, come nel caso di Ustica.

Per questo il Copasir, il Comitato di Controllo sui Servizi Segreti, convinto che i documenti ancora coperti dal segreto di Stato possano fornire una prospettiva storica diversa, è tornato a chiedere al Presidente del Consiglio, con decisione assunta il 4 giugno scorso, l’eliminazione di quel segreto. Poter consultare tutti gli atti relativi a quel periodo, infatti, potrebbe permettere lo studio approfondito anche del contesto internazionale nel quale si verificò la tragedia di Ustica. La verità, forse, può venire solo da lì. Solo quei documenti potranno, forse, far luce su quello, ed altri misteri, che hanno impedito al nostro Paese, e ai familiari di tutte le vittime delle stragi, di conoscere la verità.

E quel giorno, forse, la verità storica coinciderà finalmente con quella giuridica.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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