Nei documenti dell’Onu sui cambiamenti climatici torna l’espressione «hydro-political issues», cioè «questioni politiche per l’acqua», un’e s p re s s i o n e che, in realtà, si traduce meglio in possibili conflitti. Nei prossimi decenni, infatti, la causa più probabile di una guerra tra Stati sarà il controllo dell’acqua. È un fenomeno, quello dello “stress idrico”, che ha un impatto diretto sulla vita delle persone e sugli equilibri degli Stati: nelle regioni aride o semi-aride del pianeta l’assenza di infrastrutture adeguate ha già creato una naturale drammatica competizione per l’accesso all’acqua.
Secondo i modelli matematici sviluppati dagli esperti dell’Onu, un miliardo di persone nel prossimo ventennio saranno coinvolte in ondate di migrazioni causate dalla scarsa disponibilità d’acqua. Entro il 2030, sempre secondo le proiezioni delle Nazioni Unite, il 47 per cento della popolazione mondiale vivrà in zone a elevato stress idrico. Per l’acqua, del resto, purtroppo si è sempre combattuto e si combatte: la Banca mondiale dati annovera ben 507 conflitti legati al controllo delle risorse idriche.
Le aree più a rischio sono soprattutto quelle interessate dai bacini idrici condivisi, cioè i corsi d’acqua dolce che nascono in un Paese e che si sviluppano, o sfociano, in uno Stato diverso. Oggi ne esistono 243, a fronte dei 214 registrati nel 1978: un aumento derivato dalla disgregazione dell’ex Unione sovietica e dell’ex Jugoslavia. In particolare, secondo il rapporto dell’Onu, tra le aree più esposte al rischio del water grabbing spicca il Medio oriente, nel quale l’acqua è da sempre un fattore di crisi, per le dinamiche geopolitiche, religiose e militari che scatena.
Come sempre, poi, sono le popolazioni più povere a farne le spese, e saranno i meno abbienti a essere travolti dai conflitti militari e dalle tensioni politiche per il controllo di quello che già da anni definiamo “oro blu”. Per l’acqua, in futuro, secondo gli esperti, c’è il serio rischio che si torni a combattere nella martoriata Siria che ancora non ha pace dopo otto anni di conflitto. .
C’è poi l’indicazione, tra le aree da monitorare, del bacino del Mekong, un ecosistema lungo 4900 chilometri — l’undicesimo fiume al mondo, il sesto più inquinato — che nasce in Tibet e attraversa lo Yunnan, il Myanmar, la Thailandia, il Laos, la Cambogia e il Vietnam: ha già sollevato questioni diplomatiche tra Cina e Thailandia per la costruzione di alcune dighe, e la tensione rischia di salire. Il bacino del Tigri-Eufrate, il fiume Giordano e il Nilo sono da anni nodi strategici di una conflittualità legata alla geopolitica idrica: già nel corso del suo mandato, tra il 1992 e il 1996, l’ex segretario generale dell’Onu Boutros Boutros- Ghali mise in guardia più volte sui «rischi di una possibile guerra aperta per il controllo dell’acqua in Mesopotamia».
Dai documenti dell’Onu emerge anche che da anni Egitto, Sudan ed Etiopia sono coinvolti in delicate dinamiche relazionali per lo sfruttamento del Nilo, che potrebbero inasprirsi, così come Pakistan e India si ritrovano ad affrontare la questione dello sfruttamento delle acque dei fiumi dell’Himalaya: in questi casi, la diplomazia lavora da tempo per prevenire escalation di tensioni a questo proposito. Il tutto mentre, paradossalmente, si spreca l’acqua potabile in quantità impressionanti, tra infrastrutture inadeguate e sistemi agricoli e urbani dall’impatto non più sostenibile, come avviene, ad esempio, con l’utilizzo del fracking per l’estrazione del petrolio. In ogni caso, nonostante che l’Onu abbia dichiarato, da ormai dieci anni, il «diritto all’acqua» come «primario e indiscutibile», sono quasi due miliardi le persone che, oggi, nel mondo, vivono in condizioni di scarsa o nulla disponibilità di acqua potabile sicura.
Pubblicato su “L’Osservatore Romano” il giorno 10/08/2019